Edda Ciano e l'amante comunista (1)

Edda Ciano e l'amante comunista (1) Lastampa.it MARCELLO SORGI Edda Ciano amò un comunista. Nel ‘45, nel primo inverno dopo la fine della guerra, a soli sette mesi dall’uccisione del padre, Benito Mussolini, e a ventitre dall’esecuzione del marito, Galeazzo Ciano, conobbe a Lipari, dov’era stata inviata al confino, Leonida Buongiorno, ufficiale durante la guerra nel Primo Battaglione Alpini «Ceva» e partigiano nella Resistenza in Francia, sotto il falso nome di Paul Zanettì. Lo vide per la prima volta a novembre, alto, forte, il volto saraceno di certi siciliani arabi, mentre cercava di trattenere un gruppo di paesani che si erano ribellati al vescovo. E in una delle sue prime sere tristissime, solitarie, deprimenti, nell’isola, se ne innamorò. A Lipari la figlia del Duce era arrivata alla fine di un viaggio interminabile e umiliante a novembre del ‘45. Espulsa dalla Svizzera, dove aveva trovato riparo, dichiarata ospite non desiderata, era stata consegnata, alla frontiera, alle truppe alleate, che con un carrarmato l’avevano portata a Milano e di lì, con un aereo militare americano, a Catania, da dove poi una corvetta militare l’aveva tradotta alle Eolie. La nuova legge speciale approvata all’indomani della Liberazione prevedeva che questo fosse il destino riservato alle persone che avevano «tenuto una condotta ispirata ai metodi e al malcostume del fascismo». Ma nel rapporto di polizia che aveva accompagnato Edda al confino, complice forse la retorica e l’esaltazione del momento, figurava un’accusa ben peggiore: l’avere, lei, provocato l’ingresso in guerra dell’Italia, vincendo le resistenze del padre ed avvalendosi del forte ascendente che esercitava su di lui. «Mio caro amico e fidanzato», «caro e unico comunista», «caro Baiardo» (dal nome del cavallo del paladino Rinaldo), così Edda, nelle sue lettere e nei bigliettini che faceva consegnare tramite persone fidate, si rivolgeva a Leonida, che, più timido, le rispondeva con «Gentile amica» o «Cara Contessa». Buongiorno non era solo il capo del Pci eoliano rinato dopo la fine della dittatura, ma anche l’esponente di una famiglia antifascista che era entrata nella storia. Suo padre, Edoardo, musicista, primo trombone cantabile della banda del paese, si era sempre rifiutato platealmente di accompagnare le note di «Giovinezza giovinezza». Ed era il socialista, in contatto con le organizzazioni clandestine, che aveva fornito le carte navali e preparato la sera del 27 luglio 1929 la fuga dei fratelli Rosselli da Lipari a Tunisi e poi a Parigi, finita con il loro assassinio. Così uno strano caso voleva che il figlio del liberatore dei due martiri del fascismo incontrasse molti anni dopo la vedova del gerarca che li aveva voluti morti. «Caro amico, se i vostri impegni politici e i vostri svaghi della domenica ve ne daranno la possibilità, vorrete essere così cortese da venire a farmi una visitina? Sul tardi. Nel pomeriggio. Dio mi guardi dal monopolizzare il vostro tempo. Ma ho della malinconia. Del buon vecchio umor nero e desidererei udire delle storie fantastiche, tenere, allegre e buffe». Edda scriveva così, firmandosi «Ellenica», con il soprannome che lui le aveva dato, e Leonida la raggiungeva nella casa del padre, assente spesso perché in giro per i suoi concerti, dove lei era andata a vivere. Le prime volte, magari per stupirlo o per farsi desiderare, si faceva trovare coricata, coperta appena dal velo della zanzariera, e lui si sedeva lì, ai piedi del letto, e cominciava a raccontare. Parlavano e si scrivevano in francese e in inglese (forse per difendersi dalla curiosità dei «postini»), avevano alle spalle due storie avventurose e due mondi opposti. Edda, che amava leggere, non accettava che Leonida, uomo colto, preferisse la cultura orale e recitasse a memoria brani interi dell’Odissea. «Forse bisognerebbe leggere solo poesia amorosa», gli scrisse una volta. Di tanto in tanto andavano a fare un bagno nella spiaggia del Lazzaretto, fuori dal porto di Pignataro, o nella vicina isola di Vulcano. Lui le teneva l’asciugamano quando lei si cambiava il costume.Li dividevano, da una parte, la disillusione di lei per la sua storia finita in rovina, per gli inganni e i sotterfugi della politica, per le promesse mancate e i tradimenti subiti. E dall’altra il sogno comunista dell’«uomo nuovo» a cui lui invece aveva affidato tutte le sue speranze. Li vedevano passeggiare, al tramonto, sulla piazza della Civita, la parte più alta dell’isola tra il Municipio e il Castello. E con la buona stagione e le prime notti tiepide di Lipari, riscaldate solo dalla luce avara della luna e delle stelle, restavano fino a tardi sulla piccola terrazza della casetta sulla salita di San Bartolo, che lei presto chiamò «la petit mal maison». A Pasqua ‘46, pochi mesi dopo il primo appuntamento, la passione e l’intensità dei loro incontri intimi erano ormai di dominio pubblico. Continua...

, a cura di Peppe Paino

Data notizia: 10/1/2008

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